Uccidere animali non è affatto indispensabile per la salute e la sopravvivenza umana. La risposta che veniva abitualmente offerta riguardava la supposta incapacità degli animali a provar sensazioni – considerate esclusivamente umane – quali la paura, l’angoscia, la rabbia, l’affetto, la noia. Si sosteneva che questi esseri, semplicemente, non fossero consapevoli di esistere, non avessero la capacità di formulare pensieri, di distinguere, per esempio, la differenza tra la libertà e la prigionia.
Pur considerando l’arretratezza e la mancanza di buon senso, di empatia e di sensibilità insite in questa risposta (che peraltro, oggi, è superata da prove e studi di etologia) Peter Singer chiese, allora, di considerare con attenzione il trattamento che veniva riservato a quegli umani che, per nascita o per disgrazia, non erano più in grado di formulare pensieri o di aver consapevolezza del loro essere qui e ora. Ovviamente, queste persone, ricevevano cure e attenzioni e, nessuno, a parte i nazisti di ben nota memoria, si sarebbe sognato di usarli come cavie per esperimenti, di rinchiuderli e di allevarli per sfruttarne la pelle, la carne, le ossa, il lavoro o il divertimento che potevano rendere.
Era dunque ovvio che la supposta incapacità degli animali a pensare non fosse la risposta giusta, non fosse, in altre parole, la reale discriminante che ci permetteva di decidere chi poteva essere torturato, ucciso e mangiato e chi, invece, aveva diritto alle cure e al rispetto.
Perché è chiaro che se la discriminante fosse stata unicamente quella fino ad allora esposta, anche gli umani cerebrolesi avrebbero dovuto patir le sorti degli animali cosiddetti “da reddito”.
Dopo questa “uscita” di Peter Singer, allora, diversi filosofi conclusero che quegli esseri umani avevano il diritto alla cura e al rispetto morale perché facenti parte della nostra specie, in altre parole per il solo fatto di essere umani.
E questa, in effetti, è la risposta a cui ricorrono tutte le persone che non desiderano affrontare in maniera aperta e completa la questione animale. È la risposta che si fornisce più abitualmente. Ma Peter Singer non si accontentò di questa risposta. Peter Singer chiese il perché. Chiese perché l’appartenenza ad una specie piuttosto che ad un’altra garantisse il rispetto morale, il diritto alla vita, la garanzia di non essere comprati, venduti, rinchiusi, mutilati, uccisi.
Nessuna risposta è ancora arrivata.
Ed è ovvio che sia così, per il semplice fatto che l’unica risposta possibile dovrebbe essere strettamente connessa all’ideologia del dominio: la base fondante del razzismo, del fascismo, del sessimo, del militarismo…tutti ismi da cui, in tanti oramai, pretendono di avere preso definitivamente le distanze. Se, infatti, decidiamo in maniera arbitraria che una specie può fare ciò che vuole di tutte le altre, perché mai non dovremmo accettare che una razza, un esercito, un sesso, un’elite, una casta possa fare altrettanto con tutti gli altri?
Purtroppo è sempre bene ricordare che dominare una persona, un popolo una specie significa intervenire sul suo ciclo biologico, sulla sua libertà, significa cancellare questa persona, negare la sua identità, negargli ogni opportunità di realizzazione.
L’antispecismo sceglie di superare drasticamente l’ideologia del dominio, sceglie di farlo in tutti i suoi aspetti mettendo in evidenza anche (e ovviamente non solo) la questione animale che è il primo dei tanti gradini che portano al vertice di una ben nota piramide basata sulla violenza, il controllo e la gerarchia.
Il punto essenziale, però, è che anche chi riconosce e combatte questa piramide, molto spesso, non si accorge di esserne parte integrante, di utilizzare le sue stesse dinamiche, di favorirne la crescita e la spietatezza.
Succedeva in tempi passati, quando i vecchi compagni, tornati a casa dopo le lotte politiche, sfruttavano le loro stesse mogli, o insultavano e picchiavano il figlio gay. Succede oggi a molti libertari che accettano e partecipano al dominio di tutte le specie animali, che accettano e finanziano strutture circondate da fili spinati dove vivono, stipati in luoghi angusti, terrorizzati, inseminati artificialmente, alimentati forzatamente, sfruttati e infine uccisi, miliardi di individui la cui unica colpa è quella di non essere umani.
Pur considerando l’arretratezza e la mancanza di buon senso, di empatia e di sensibilità insite in questa risposta (che peraltro, oggi, è superata da prove e studi di etologia) Peter Singer chiese, allora, di considerare con attenzione il trattamento che veniva riservato a quegli umani che, per nascita o per disgrazia, non erano più in grado di formulare pensieri o di aver consapevolezza del loro essere qui e ora. Ovviamente, queste persone, ricevevano cure e attenzioni e, nessuno, a parte i nazisti di ben nota memoria, si sarebbe sognato di usarli come cavie per esperimenti, di rinchiuderli e di allevarli per sfruttarne la pelle, la carne, le ossa, il lavoro o il divertimento che potevano rendere.
Era dunque ovvio che la supposta incapacità degli animali a pensare non fosse la risposta giusta, non fosse, in altre parole, la reale discriminante che ci permetteva di decidere chi poteva essere torturato, ucciso e mangiato e chi, invece, aveva diritto alle cure e al rispetto.
Perché è chiaro che se la discriminante fosse stata unicamente quella fino ad allora esposta, anche gli umani cerebrolesi avrebbero dovuto patir le sorti degli animali cosiddetti “da reddito”.
Dopo questa “uscita” di Peter Singer, allora, diversi filosofi conclusero che quegli esseri umani avevano il diritto alla cura e al rispetto morale perché facenti parte della nostra specie, in altre parole per il solo fatto di essere umani.
E questa, in effetti, è la risposta a cui ricorrono tutte le persone che non desiderano affrontare in maniera aperta e completa la questione animale. È la risposta che si fornisce più abitualmente. Ma Peter Singer non si accontentò di questa risposta. Peter Singer chiese il perché. Chiese perché l’appartenenza ad una specie piuttosto che ad un’altra garantisse il rispetto morale, il diritto alla vita, la garanzia di non essere comprati, venduti, rinchiusi, mutilati, uccisi.
Nessuna risposta è ancora arrivata.
Ed è ovvio che sia così, per il semplice fatto che l’unica risposta possibile dovrebbe essere strettamente connessa all’ideologia del dominio: la base fondante del razzismo, del fascismo, del sessimo, del militarismo…tutti ismi da cui, in tanti oramai, pretendono di avere preso definitivamente le distanze. Se, infatti, decidiamo in maniera arbitraria che una specie può fare ciò che vuole di tutte le altre, perché mai non dovremmo accettare che una razza, un esercito, un sesso, un’elite, una casta possa fare altrettanto con tutti gli altri?
Purtroppo è sempre bene ricordare che dominare una persona, un popolo una specie significa intervenire sul suo ciclo biologico, sulla sua libertà, significa cancellare questa persona, negare la sua identità, negargli ogni opportunità di realizzazione.
L’antispecismo sceglie di superare drasticamente l’ideologia del dominio, sceglie di farlo in tutti i suoi aspetti mettendo in evidenza anche (e ovviamente non solo) la questione animale che è il primo dei tanti gradini che portano al vertice di una ben nota piramide basata sulla violenza, il controllo e la gerarchia.
Il punto essenziale, però, è che anche chi riconosce e combatte questa piramide, molto spesso, non si accorge di esserne parte integrante, di utilizzare le sue stesse dinamiche, di favorirne la crescita e la spietatezza.
Succedeva in tempi passati, quando i vecchi compagni, tornati a casa dopo le lotte politiche, sfruttavano le loro stesse mogli, o insultavano e picchiavano il figlio gay. Succede oggi a molti libertari che accettano e partecipano al dominio di tutte le specie animali, che accettano e finanziano strutture circondate da fili spinati dove vivono, stipati in luoghi angusti, terrorizzati, inseminati artificialmente, alimentati forzatamente, sfruttati e infine uccisi, miliardi di individui la cui unica colpa è quella di non essere umani.
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