Siamo circondati, sommersi, da mistificazione e malafede. Spesso e volentieri, ci si appiglia a costruzioni mentali pretestuosamente strumentali pur di non scalfire credenze che, se si sgretolassero, metterebbero in crisi le basi di un sistema al tempo stesso ideologico ed economico. Il rapporto con gli altri animali, con i non umani per intenderci, è la cartina di tornasole di questa condizione, perché rimanda ad un insieme di ordini sedimentato, stratificatosi nel corso del tempo. Un insieme fondato sullo sfruttamento, sulla violenza, sull’assoggettamento, sull’annientamento dell’altro. Siamo soliti, ad esempio, interrogarci su “cosa” mangiamo, mentre dovremmo farlo su “chi”, su quale essere, sottoposto ad allevamento, uccisione, sezionamento, è finito nel piatto.
Non solo l’altro viene privato della vita ma viene oggettivato, reificato. Occultiamo, tramite l’invisibilità, i luoghi da cui il vivente uscirà sotto forma di trancio, di parte sottratta a una totalità palpitante. Rendiamo difficile l’accesso ai lager in cui individui di specie diverse, ridotti a numeri e cartellini, vengono forzatamente nutriti e sottoposti ad abrasioni o menomazioni per produrre carne, latte, uova, paté, confezioni di pesce, capi d’abbigliamento.
Lo strazio consumato lontano dagli occhi e dalle orecchie, lo sprezzante esercizio di brutale dominio perpetrato, come nelle deportazioni in massa durante il nazismo o lo stalinismo, con la complicità, diretta o indiretta, volente o nolente, dei consumatori, non (si) concede pause.
Come se non bastasse, ecco la trovata di ammantare l’orrore, fornendo un alibi, infiocchettandolo. Ed ecco, allora, loslow food, la “carne felice” o pseudo tale, scaturita cioè da un’operazione di imbellettamento il cui scopo è alleviare le coscienze dei consumatori. Come se al bovino o al suino allevato nelle fattorie “bio” non spetti, in fondo, identica fine del bovino o del suino che ha trascorso la propria esistenza nell’artificiosità dei grandi complessi industriali.
E’una sorta di etichettamento eufemistico, ha scritto Annamaria Manzoni, quello che “ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti (per essere stati evirati, amputati, appena nati, di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne! – in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro)”.
Un allevamento o un mattatoio “ottimali” sono, in realtà, un controsenso. Non possono esistere. E’ come se ci fossero stati campi di concentramento in cui gli internati venivano trattati “bene” per essere meglio inceneriti.
Come Guido Ceronetti, antiretore per eccellenza, ha constatato, “anche solo la vista di vagoni carichi di creature sofferenti dovrebbe lasciare qualche traccia (…). Chi sa questo e guarda anche solo per una volta gli occhi di un vitello dietro le sbarre, si sentirà – specie se ne è corresponsabile attraverso le sue abitudini alimentari - consciamente o inconsciamente colpevole, offeso nella sua umanità. Alla lunga, però, un comportamento che intuisce l’ingiustizia ma non fa nulla contro di essa rende malati e questa indifferenza nei confronti delle creature a noi affidate e della loro sofferenza è forse una malattia peggiore del morbo della mucca pazza, perché più diffusa”.
Non è ipocrita e mistificatorio, dunque, come è stato fatto recentemente sul Domenicale del Sole 24 Ore da parte di una “bioeticista”, utilizzare la foglia di fico del cosiddetto “benessere animale” per perorare meglio le “ragioni del mercato” (vale a dire dello sfruttamento)? E ancora: ha senso parlare di “biosicurezza” e “riduzione di lunghezza delle filiere” se, poi, la fine per l’animale è ugualmente segnata, l’esito è sempre tragicamente lo stesso?
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