mercoledì 11 dicembre 2013

Il cervo - Giovanni Manizzi

foto: nuke.gabrielesalari.it
Non so da dove né come iniziare. 
Perché oggi, ho accarezzato e baciato un cervo, davanti ai cacciatori che lo avevano appena ucciso coi loro fucili coltelemetro, in Valsesia. 
Le emozioni sono mille, i pensieri duemila, tutti intrecciati: e così, i dubbi e le domande sono tremila.
Forse se inizio dal principio. 
La Valsesia è una valle chiusa. 
I suoi abitanti, nei secoli, hanno acquisito durezza di carattere e di cuore, che nel XXI secolo, non si è mitigata, nemmeno nei più giovani.
Eppure, ho amato e amo questi LUOGHI, anche se faccio grande fatica con le persone che li abitano – e questo è anche un mio punto debole, ne sono cosciente.

Proprio per questo, ho passato molti significativi anni della mia vita tra questi boschi. 
Anche questa mattina, ero a passeggio con due dei miei cani (Stella e Chicco, ma non mi dilungo su di loro).
Eravamo vicino alla riva di un fiume: prato innevato sotto il sole lontano del mezzodì di dicembre, grandi sassi della riva, e davanti a noi boschi sulle pendici già in ombra. 
Si può pensare qualcosa di più rinfrancante?
Di colpo. 
A distanza non troppo breve, risuonano quattro potenti detonazioni, tutte le rocce delle montagne intorno, coi tronchi dei loro alberi, e i rami suoi tronchi, e gli aghi e il fogliame sui rami, e gli animali tra i tronchi, i rami e le radici, ne risuonano, ogni volta a lungo. 
Tremano, come trema il mio animo, perché capisco al volo che cosa ho udito: spari di fucile.
Vorrei che fossero andati a vuoto, ma scoprirò a breve che non è stato così.
Vicino alla bella passeggiata – che tale è per una persona di città, e chissà invece che cosa rappresenta per un montanaro che vive qui tutto l'anno – c'è un accogliente pub – che definire bar è riduttivo, e chiamare locanda è fuorviante. 
Lasciati i cani in auto, entro per bere un caffè. 
Di lì a poco, arriva il pick up dei cacciatori. 
Col cervo disteso e legato con le corde.

Sono quattro, o cinque, li conosco quasi tutti; solo uno, dal modo di muoversi e di parlare, non sembra originario del posto.

Se sul subito mi rifiuto di uscire, quasi da un secondo all'altro, invece, cambio idea: penso che lo devo al cervo, almeno un gesto di rispetto, di saluto. 
Mi faccio coraggio.
Esco. 
Sono vigile, mi accorgo di notare ogni minimo dettaglio. 
Mi avvicino al pick up, in fondo al parcheggio della piccola piazza. 
Mi vedono, sanno chi sono, non mi bloccano, ma nemmeno mi fanno passare.
Ridono. 
Un bambino che di sicuro frequenta già le elementari, è arrampicato sulla sponda, spinge il torace inerte del cervo con la piccola mano. 
Ride. 
Guarda suo papà, che è tra i cacciatori. 
È un bel bambino, e conosco suo padre. 
Chiedo permesso a uno dei cacciatori, che mi volta le spalle e intanto afferra il palco di corna e muove la testa del cervo, come fosse un pupazzo. 
Chiedo permesso, si scosta e così posso avvicinarmi al cervo. 
Noto le ferite, varie, sul corpo non così grande. 
Sento in lontananza, che parlano di come lo hanno braccato e sparato, di quanto può pesare e valere, di quanta carne, di cosa fare col palco, e altri discorsi (prezzi, leggi, tasse, qui tutto è misurato con questi criteri)...ma sono in sottofondo. 
Guardo solo lui, vorrei che potesse vedermi anche lui. 
Lo accarezzo, più volte. 
Poi decido che non basta, e perciò di baciarlo in fronte. 
Il pick è molto alto, riesco a baciare la mia mano, e appoggio il bacio sulla sua fronte, gli sussurro parole. 
Sento uno dei cacciatori, che ben mi conosce, esclamare qualcosa, ma è in dialetto che non comprendo. 
Alzo gli occhi, mi accorgo che il bambino mi guarda con gli occhi sgranati.
È tutto. 
Il fatto è tutto qui. 
Ma mi scardina dentro e pensieri escono a valanga.
Come doveva essere bello questo cervo,stamattina, all'alba, col ghiaccio che esce dalle narici nel respiro, gli occhi attenti, le orecchie che si muovono; lui sente il calore del proprio corpo, è giovane, la luce sta tornando nel bosco, perciò è felice. 
Ha fame e inizia a cercare cibo. 
Ce n'è poco, forse perciò si avventura vicino ai luoghi che puzzano delle cose dei duegambe-senza-corna, anche se ciò lo agita. (scoprirò che sono due settimane che gli danno la caccia: in 4, o più, coi telemetri, coi mirini, nutriti, al caldo... vigliacchi: credo che lo abbiano sorpreso tradendo la sua ingenuità della gioventù).

Come si sente vivo! Chissà se c'erano altri cervi con lui, chissà se invece era solo, ma fiducioso nelle sue forze, e sentiva nell'aria messaggi odorosi di compagni della sua specie.

Tutto questo, agli umani col fucile e gli occhi piccoli e le rughe nelle facce tirchie e tirate, specchio di cuori avidi e gelidi, non interessa. 
Loro lo vedono come un'pezzo' di qualcosa da smembrare, mangiare, vendere, scaricare, gettare.
Ho già detto anche troppo. 
Mi fermo, non perché non ci siano altri mille pensieri, ma perché di più di così, vorrebbe dire togliere dignità e rispetto a questo cervo, e al mio desiderio di poterlo salutare col mio addio dal profondo della mia anima.
Ricordo solo – per chiudere con l'incanto e la speranza - un grande cervo che vidi anni fa: io ero in auto, lui era appena fuori da una galleria che sbocca sul tratto finale e rettilineo della valle. 
Grande al chiaro di luna, davvero maestoso. 
Senza paura, mi guarda. 
Si allontana senza fretta, seguito dalla sua compagna e dai loro due figli. 
Nel bosco. 
Una incarnazione magica.

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