giovedì 2 gennaio 2014

"Carne da demolizione" un libro di Fabio Forma (recensioni&articoli)









"Il mattatoio dell'Italia "interna" di Fabio Forma è il ritratto di un Paese smarrito che ormai compie le proprie azioni ignorandone il significato, tristemente in bilico tra senso del dovere e nauseante insensatezza." 
Andrea Di Consoli





"Il senso della tavola imbandita — Eleonora Adorni."
Frans Snyders «The Pantry», 1620
Il cibo ha un’anima e anche gli antro­po­logi più for­te­mente anco­rati all’immanente sono costretti ad ammet­terlo. Come non esi­stono società senza lin­guag­gio, pos­siamo dirlo con cer­tezza, non esi­stono cul­ture che non abbiano tra­di­zioni culi­na­rie che con­cor­rono in maniera sostan­ziale a infor­mare pra­ti­che, saperi e tra­di­zioni, in sin­tesi, l’identità di chi le pone in essere. Siamo quello che man­giamo e, spe­cu­lar­mente, ciò di cui ci nutriamo parla di noi deli­mi­tando sensi di appar­te­nenza, gusti e gesti condivisi.

Man­giare, a ben vedere, è l’atto più impor­tante della vita umana, ciò che genera l’esistenza stessa e che altresì testi­mo­nia la nostra dipen­denza dall’altro: nel neo­nato che cerca istin­ti­va­mente il capez­zolo della madre a pochi minuti dalla nascita osser­viamo l’essenza intrin­se­ca­mente ete­ro­ri­fe­rita della dia­let­tica del ricevere-dare nutri­mento. Pro­prio per tale carat­tere «squi­si­ta­mente» cul­tu­rale, il cibo e l’alimentazione sono sem­pre stati temi pre­di­letti dell’antropologia e ricerca etnografica.

Si tratta di una vera e pro­pria etno­gra­fia, anche se rac­chiusa nelle vesti del romanzo – una sorta di etno­gra­fia post­mo­derna in cui impal­pa­bili sono i con­fini tra veri­di­cità e fic­tion, tra reso­conto e rac­conto -, il recente testo del gio­vane Fabio Forma Carne da demo­li­zione (Gaffi, 2013). È un’indagine etno­gra­fica sui gene­ris sì, ma non per que­sto meno effi­cace nel ripor­tarci la realtà degli impianti di macel­la­zione, poi­ché nata dall’esperienza per­so­nale dell’autore, che, fre­sco lau­reato all’Università di Comu­ni­ca­zione di Milano, viene cata­pul­tato attra­verso uno sbalzo spazio-temporale (dalla capi­tale mene­ghina all’entroterra sardo) in un frigo-macello dove gli si appa­lesa tra­gi­ca­mente agli occhi la pro­ve­nienza del cibo che ci nutre, il cibo che siamo.

L’esperienza di Forma, sep­pur sotto altre vesti, richiama quelle che sul mede­simo argo­mento, si stanno con­du­cendo in molte parti d’Europa: la socio­loga Helena Peder­sen nei macelli sve­desi dove indaga le rela­zioni tra edu­ca­zione e for­ma­zione del per­so­nale addetto allo «smon­tag­gio di ani­mali» e l’etnografia Every Twelve Seconds. Indu­stria­li­zed Slaughter and the Poli­tics of Sight (Uni­ver­sity of Yale Press, 2011) dall’antropologo Timo­thy Pachi­rat con­dotta sotto men­tite spo­glie in un mat­ta­toio del Nebra­ska. Uno dei fili con­dut­tori di tali espe­rienze sem­bra celarsi nella con­trap­po­si­zione tra ciò che è visi­bile da ciò che non lo è: affin­ché gli esseri viventi diven­tino cibo per le boc­che umane, neces­si­tano di un pas­sag­gio obbli­gato nei luo­ghi «dell’invisibile» ai quali ogni sguardo esterno è pre­cluso. E in tal senso, che nutrirsi di ani­mali rap­pre­sen­tasse una pro­ble­ma­ti­cità di non facile riso­lu­zione se ne era già accorta anche l’antropologia, per così dire, «classica».

Pen­siamo alle ana­lisi di Radcliffe-Brown presso gli Anda­mani dell’oceano indiano, dove, negli anni qua­ranta, l’antropologo inglese pose in evi­denza come il cibo ani­male costi­tuisse foco­laio di tabù per anto­no­ma­sia, tanto da sen­ten­ziare: «man­giare è peri­co­loso». Cibarsi di ani­mali dalle grandi dimen­sioni e dalle sem­bianze antro­po­morfe, in que­ste popo­la­zioni era ricet­ta­colo di tabù poi­ché tali esseri con­di­vi­de­vano con gli umani carat­te­ri­sti­che di sog­get­ti­vità e dell’agire.

Anche gli studi del com­pa­triota Edmund Leach, con­dotti qual­che decen­nio suc­ces­sivo tra i Kachin bir­mani illu­stra­rono come i tabù ali­men­tari, inse­riti nel più ampio sistema di quelli con­nessi alla ses­sua­lità, seguis­sero una logica di «distan­zia­mento da Ego», per cui i pets e gli ani­mali sel­va­tici diven­gono ine­di­bili in quanto troppo vicini, nel caso degli ani­mali dome­stici, o troppo lon­tani per quelli sel­va­tici dalla sfera del sé.

Infine, anche l’antropologa Mary Dou­glas tra i Lele del Kasai (Congo) osservò come la pra­tica ali­men­tare seguisse una vera e pro­pria gram­ma­to­lo­gia, non si pote­vano man­giare «ani­mali bam­bini» (cuc­cioli), i pre­da­tori le cui abi­lità e destrezza pote­vano com­pe­tere con quelle del guer­riero e gli ani­mali che si nutri­vano di rifiuti. Tale clas­si­fi­ca­zione, che si sno­dava attorno all’antinomia uomo-animale, osservò Dou­glas, andava a strut­tu­rare tra i Lele le rela­zioni all’interno dei mem­bri della società (donne dedite all’allevamento, uomini alla cac­cia, e così via) sot­to­li­neando ancora una volta il nesso pro­fondo tra cibo (in que­sto caso ani­male), antro­po­po­iesi intesa come costru­zione del sé e, in que­sto caso, koino-poiesi ovvero costru­zione di reti sociali (la comunità).

Nel pano­rama ita­liano con­tem­po­ra­nea, tra gli altri, è l’antropologa Ales­san­dra Gui­goni che si occupa con le pro­prie ricer­che di tema­ti­che annesse all’alimentazione evi­den­zian­done la cen­tra­lità per qual­siasi rico­gni­zione che si voglia occu­pare delle dina­mi­che della per­ce­zione iden­ti­ta­ria. Gui­goni in Antro­po­lo­gia del man­giare e del bere (Altra­vi­sta, 2009) com­pie un’affascinante etno­gra­fia dello svez­za­mento in Ita­lia con richiami ai topoi clas­sici dell’antropologia, un dive­nir man­giando che evi­den­zia il ruolo pecu­liare della madre nel for­mare il gusto del bambino.

Lo svez­za­mento lungi dall’essere un fatto natu­rale, è un con­den­sato di pra­ti­che sim­bo­li­che, sto­ri­che e sociali custo­dite e tra­smesse oral­mente attra­verso un lin­guag­gio pro­prio delle/per le donne. Se è emerso allora come l’alimentazione vada a con­cor­rere alla costi­tu­zione dell’identità e a ciò che per­ce­piamo come «tra­di­zione» è altresì vero che dinanzi a quest’ultimo con­cetto oggi gli antro­po­logi guar­dano con sospetto.

Fin troppo abu­sato nella sua fit­ti­zia – si con­ceda il gioco di parole – tra­du­zione, ossia di realtà immo­bile e incon­tra­sta­bile della veri­di­cità del «ciò che si è sem­pre fatto», la tra­di­zione, anche quella culi­na­ria, al con­tra­rio si tra­sforma dina­mi­ca­mente sele­zio­nando quei con­te­nuti che la società fa pro­pri poi­ché evo­luti assieme alla sen­si­bi­lità di chi la pratica.

In tal senso, l’opera di «disve­la­mento» che etno­gra­fie come quella di Fabio Forma stanno com­piendo all’interno dei non-luoghi dediti alla pro­du­zione di bistec­che e fet­tine, appa­iono come gri­mal­delli abili nello scar­di­nare le ser­ra­ture delle abi­tu­dini più con­ser­va­trici. Il cibo ha un’anima che piange e che spera e non solo secondo un richiamo filosofico/metaforico. A ridosso delle festi­vità in cui, da un capo all’altro della peni­sola, faremo sfog­gio di tavole imban­dite di lucul­liane pre­li­ba­tezze (la rino­mata tra­di­zione culi­na­ria ita­liana), rivi­si­tare i pro­pri menù così come ci con­si­glia di fare ad esem­pio la chef vege­ta­riana Nives Aro­sio ne La cucina etica regio­nale (Sonda 2012) non pare poi così azzar­dato né tanto meno corag­gioso. Mi sem­bra più che altro un gesto sem­plice per una tra­di­zione che evolve e che sce­glie con con­sa­pe­vo­lezza di guar­dare al pro­prio futuro.



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